lunedì 10 novembre 2014

From random acts of racism to freedom

The word racism has always scared me to death. Since I learnt its meaning I’ve always been able to recognize it, unveil its true nature despite it being hidden in refined, beautiful words. Racism sneaks into people’s statements leaving acute listeners flabbergasted. I remember being invited to a party by one of my highly educated friends. He started talking about one of our common friends’ skin colour and ended out calling him “negro”. I felt the anger building up in my stomach and told him, in front of all the other lawyers, engineers, scholars and graduates of any kind, who were laughing at his bad joke, that he was not only offending him, he was also offending me, being a mixed race man, and all the people of colour in the world as he had just spoken as a racist. Suddenly they all stopped laughing, a gloomy silence fell over the room and he pointed out that he was not offending me, as I was like “them”, he was just making fun of our common friend. I understood then that he didn’t have a clue of what equality meant, of what black people had gone through, of what history should have taught us all. I experienced racism on my own skin and got an idea of how rooted it can be in people’s minds, thoughts, hearts, lives.
Here’s an article written by Rebecca Carrol, a black, American journalist, writer, editor who got tired of newsroom racism and made a drastic choice. She chose freedom.

giovedì 7 agosto 2014

La Doudou de Pointe-à-Pitre

- Tu n’achètes rien, doudou? - Dit-elle d’une voix douce et moqueuse à la fois, en me regardant de ses grands yeux tendres et ronds.
- Désolé madame, je n’achète rien…je ne peux pas ! Si je pouvais j’achèterais un produit chez chacune de vous, mais je ne peux même pas ramener tout le marché de Pointe-à-Pitre en Europe dans ma petite valise! -

Elle me dévisagea d’un air déçu et semblait me questionner du regard. Je l’observai pendant quelques secondes et je crus apercevoir les souffrances et les bonheurs de sa vie, la fatigue du quotidien, l’incertitude de rester toujours là, les deux pieds au bord du précipice. La peur de tomber et la joie d’être toujours en vie, debout, même en vacillant. Et ses enfants...ses petits cœurs, les prunelles de ses yeux, pour lesquelles elle ne cessait pas de s’inquiéter.

- Ils vont bientôt devenir des grands garçons…qu’est-ce qu’ils vont faire ici ? Accepteront-ils de partir et se faire une vie ailleurs ? Et moi, je l’accepterai ? Je serai capable de soutenir leurs choix et cohabiter jour après jour avec leur absence encombrante? Je ne sais pas ! Rien que d’y penser ça me fait froid dans le dos. Mon Dieu, donne-moi la force !

- Je sais, je sais…mais sens-moi ça, doudou. Ça sent bon, n’est-ce pas ? Juste un petit souvenir de la Guadeloupe. C’est cinq euros seulement. C’est de la vanille, ça va te réchauffer le cœur pendant l’hiver ! -

Elle avait bien raison. Abrité dans la senteur de vanille, cet hiver fut beaucoup moins froid.

venerdì 6 giugno 2014

Mademoiselle Sophie

Elle était là, à l’aéroport. Toute seule elle attendait qu’on vienne la chercher pour pouvoir lui montrer ce nouveau monde dans lequel elle allait plonger.
Les yeux luisants, le regard pensif, la tête pleine de voix qu’elle ne reconnaissait pas. Son être bombardé par les mots explosifs d’une langue qui lui sonnait dure et bizarre en même temps. Une voix d’homme la fit sursauter.
- Mademoiselle Sophie ? Êtes-vous bien mademoiselle Sophie ? -
Elle tourna la tête à gauche et fut soulagée en entendant des mots familiers prononcés d’un inconnu dont la voix n’était pas comparable à celles auxquelles elle était habituée. C’était peut-être l’accent ou le ton qui lui donnaient des frissons.
- Oui, c’est bien moi ! Et vous êtes …. ? -
- Moi, je suis Roberto, le conducteur de la voiture qui vous conduira chez M. Villa. Suivez-moi, s’il vous plaît . Permettez-moi de prendre votre valise ! -
Elle le suivit silencieusement en apercevant les regards émerveillés des gens autour d’elle qui la scrutaient comme si elle était un animal rare. Ensuite un femme dit : - Elle est noire, qu’est-ce qu’elle fait ici ? -
Du coup, Sophie crut tout comprendre. Elle aurait dû lutter et souffrir pour voir respectés ses droits et sa condition de femme noire au pays des blancs. Cette phrase là, comprise par hasard, fut la première flèche au cœur qu’on lui avait tirée dans cette terre qui ne lui appartenait pas, mais qu’elle aurait appris à aimer comme si c’était la sienne.

Joanna e il suo paese

  - Non ho intenzione di passare la vecchiaia in questo paese. Voglio ritornare nella mia terra, dalla mia famiglia; voglio tornare a svegliarmi col canto degli uccelli, guardare fuori dalla finestra e veder gli alberi di cocco e banane. Voglio morire gustando ancora i sapori della mia infanzia: mango, cocco, banane, avocadi e canna da zucchero naturali. Voglio ancora ridere e sentire il cuore che si riempie di amore quando anche chi non ha nulla mi accoglie con un sorriso. Qui non è così, avverto una tristezza profonda e una costante insoddisfazione in chi mi sta intorno. L’egoismo, il menefreghismo...ne ho abbastanza...voglio andar via! Ma no, non posso, ho ancora un marito, dei figli. È vero, sono grandi, ma sento che hanno bisogno di me ed io non riesco a stare senza di loro. Gioisco quando sono con me e non posso trattenere le lacrime quando son via per lavoro. - Questi erano i pensieri di Joanna quel pomeriggio d’estate. Faceva caldo e lei era distesa sul divano a guardare uno di quei tanti film malinconici che passano alla TV quando la stagione televisiva giunge al termine.
  - No...ancora il telefono. Sono sicura che è mio marito e che ha bisogno di aiuto al lavoro. Ma io non ce la faccio proprio oggi. Mi sento affaticata, la pressione mi si sta abbassando.-
- Pronto?
- Si, sono io, come stai Julie? È tanto che non ti sento, volevo chiamarti per sapere come sta tua madre ma non ho ancora comprato la scheda. -
- Come?! Morta?! Anche lei! Ma...come?! -
- Il cuore...ma stava bene! Perché.....?! -
- Grazie Julie...ti richiamerò!
- Non sopporto questa lontananza! Li sto perdendo tutti senza poterli abbracciare...parto! Si, in un modo o nell’altro ce la farò...i soldi riuscirò a metterli insieme...devo almeno vedere l’unica sorella che mi rimane...e magari l’ultimo fratello in vita. -
- Mi sento morire! Il dolore che mi porto dentro diventa sempre più grande...ho male...non riesco a respirare...aiuto!!! -
  Le lacrime di Joanna continuarono fino a notte inoltrata. Per la prima volta nella sua vita non riusciva ad arrestarle. In passato era sempre riuscita a darsi un contegno ma questa volta era diverso. Sembrava che tutti i dolori accumulati durante la vita, piccoli e grandi, sortissero i loro effetti in quel giorno. Quella notizia aveva riaperto tutte le ferite che aveva nel cuore trasformandole in una piaga difficile da rimarginare di lì a poco. Anche il marito, giunto a casa dal lavoro, a stento era riuscito a capire ciò che lei gli volesse dire viste le lacrime che le impedivano quasi di parlare. Passò due giorni a letto, a piangere, digiuna, nutrendosi di succhi di frutta. Il terzo giorno si alzò, andò in agenzia e prenotò il suo viaggio. Sarebbe stata fuori un mese. Tornata a casa ricadde in quel doloroso silenzio che il marito, nonostante gli sforzi, non riusciva a penetrare.
- Ludovico, parto domenica. Starò via un mese!
- Si, ne ho bisogno. Devo pagare il viaggio ed eventualmente le spese di soggiorno. Mi dispiace, non posso fare altrimenti. Non voglio che tu venga, ho bisogno di essere sola e di capire delle cose. Non prendertela, non voglio escluderti ma è necessario che tu capisca che sto vivendo un dolore troppo grande e personale perché possa condividerlo con qualcuno. La tua comprensione sarà la prova dell’amore che nutri per me. -
  Dopo dieci ore di aereo Joanna arrivò nella sua terra. Le sembrava di trovarsi in uno dei gironi dell’inferno: strade dissestate, rigoli di acqua fetida ai lati della cosiddetta carreggiata con bambini che vi sguazzavano dentro. Visi sporchi e segnati dalla fame e dalla guerra. Sorrisi che non esprimevano gioia ma profonda sofferenza. La piaga del cuore di Joanna diventava sempre più profonda e le lacrime incominciarono nuovamente a farsi strada su quel viso liscio e giovanile che impediva a chi la osservava di capire esattamente quanti anni avesse.
- Julie, scusa ma non riesco a trattenere le lacrime. Questo non è il mio paese. Non è il paradiso che ho lasciato trent’anni fa e tantomeno la povera nazione, ma in via di miglioramento, che ho visitato tredici anni fa. Questo mi sembra un inferno...ma come fate a vivere qui?...Aiutami a sopportare questo dolore! -
  Joanna si sentiva lacerata. Non solo la sua famiglia stava pian piano scomparendo, ma anche il paradiso in cui era nata non aveva più nulla che spiegasse il perché di quell’appellativo. La terra a cui apparteneva, le sue radici, le sue origini, tutto sembrava scomparire davanti ai suoi occhi dandole la sensazione di cadere nel vuoto. Anche l’incontro con la sorella Lisette non le provocò gioia. Nell’abbracciarla ancora una volta iniziò a piangere. Quelle lacrime bagnavano i suoi ricordi di infanzia, i momenti di felicità e tristezza, le esperienze belle e brutte della sua vita, il viso di Lisette. Era invecchiata, le gambe gonfie, più taciturna del solito. Aveva la sua solita espressione di donna altezzosa mista all’umiltà dovuta all’invecchiamento.

- Che bello rivederti, Lisette. - Disse Johanna con la voce tremolante ed i sospiri pesanti per il troppo pianto. 

Luigi e l'aspirina

Luigi quel giorno non era andato a lavoro. Aveva fatto fatica a permettere che la luce di quel mattino assolato e mite attraversasse il velo lacrimale che faceva da filtro tra il mondo a lui esterno ed i suoi occhi così delicati dopo tante ore di sonno. Beh, tante si fa per dire. Ne aveva dormite solo quattro, ma era già un successo per lui in quel periodo in cui a stento dormiva un’ora a notte, occupato com’era nella stesura del suo primo libro. Eh si, perché Luigi era uno scrittore, uno scrittore in erba. Aveva impiegato anni per arrivare alla conclusione che l’unico mezzo che aveva per poter canalizzare la sua creatività era la scrittura. L’aver utilizzato l’aggettivo “unico” forse riduce un po’ la possibilità di comprendere la complessità delle sue capacità. Diciamo quindi che la scrittura era l’unico mezzo con il quale si sentiva a suo agio nell’esprimere quel che provava, anche se aveva provato innumerevoli volte ad utilizzare la pittura, la musica, la danza, il mimo per dar sfogo all’ansia di comunicare che sentiva crescere di giorno in giorno oramai da anni. A trent’anni suonati, dopo aver ignorato, messo da parte, accantonato i suoi sogni per troppo tempo, decise di realizzarli, tutti, o almeno provarci in modo costruttivo. Il primo obiettivo che si pose fu quindi quello della scrittura di un libro, di un racconto, insomma di una storia che potesse permettergli di fare i primi passi nel mondo della letteratura creata e vissuta in prima persona. Quel giorno, però, la testa gli scoppiava. Si sentiva stordito come se avesse bevuto, con un calore all’interno della testa che lo induceva a lacrimare ogni qualvolta i riflessi di quel sole stranamente luminoso andavano anche leggermente ad urtare contro i suoi deboli, delicati e doloranti occhi. Riuscì ad alzarsi dal letto ma la testa pesante gli rendeva difficile camminare. Si diresse in cucina nella disperata ricerca di un’aspirina per lenire il dolore dei pensieri che gli si affollavano nella mente e che cercavano una via d’uscita. Uscita negata dalle porte sbarrate a quelle idee in cerca di libertà: naso otturato, voce roca, orecchie intasate e vista ancora bassa, soprattutto poi senza occhiali.
  - L’aspirina...dov’è l’aspirina?! Irene, ho comprato una scatola di aspirina qualche settimana fa’ e non la trovo!!! -
- E’ normale, non vedi mai nulla!! Da quando gli è preso lo schiribizzo di scrivere poi, sembra di vivere in casa con una mummia egizia: sempre rintanato nel suo studio, immerso nelle essenze orientali che favoriscono la concentrazione. Esce solo per andare a lavoro e mangiare. A volte ho rischiato di morire di infarto vedendomelo arrivare da dietro scalzo, sempre muto, con la solita tuta bianca mentre camminava a passi lenti, trasognato, pensando a cosa scrivere nella frase successiva. Non ne posso
più! -
- Ma Irene, cosa dici?! Che centra l’Egitto, io sto cercando l’aspirina! -
- Luigi, se non è in cucina di sicuro è in bagno, nel cassetto dei medicinali. -
- Ma scusa, si tratta di compresse effervescenti che vanno sciolte in acqua, che ci fanno in bagno? È una medicina da prendere per bocca! -
- Insomma, basta Luigi. In cucina ci son le cose da mangiare, ho spostato tutti i farmaci in bagno! -
- Boh, non la capisco proprio questa donna, sembra lo faccia apposta per rendere le cose più difficili! -
  Luigi era professore di letteratura inglese in un liceo scientifico ed Irene lavorava come traduttrice freelance già da un po’ di anni. Si erano conosciuti all’università, poi si erano persi di vista per un po’, finché non si rincontrarono qualche anno dopo per un misterioso gioco del destino.
  La prima volta che Luigi vide Irene ne rimase stregato. Lui era seduto in quell’aula dell’università e stava assistendo alla lezione di inglese di uno dei professori più simpatici della facoltà. Stava morendo dal ridere come era suo solito fare grazie al costante scambio di battute con la sua compagna di banco e l’insegnante. Anch’egli appariva sempre divertito dalla loro ilare partecipazione alle lezioni, cosa che dava brio e vivacità a quelle ore che per altri apparivano come l’ingiusta pena da scontare per chissà quali peccati commessi in una delle vite precedenti. Tra risate, parole in inglese e schiamazzi Luigi sentì l’insolito scricchiolio della porta nuova che si apriva. Si girò con il sorriso sulle labbra e vide entrare lei, quella ragazza dagli occhi grandi e vispi che di colpo gli trasmisero sicurezza ed innocenza. Aveva lo sguardo tra l’imbarazzato e il divertito, consapevole del suo ritardo ma convinta che tutto le dovesse essere perdonato perché era semplicemente lei. Luigi sembrava instupidito, la sua attenzione era stata calamitata da quella giovane donna mai vista prima ma conosciuta chissà da quanto. I loro sguardi si incrociarono e lui sentì come un calore nel ventre. Quella sensazione si espanse all’intero suo corpo così che in qualche secondo divenne rosso come quando si è colti da un improvviso imbarazzo.
- Luigi...Luigi...ma non ti senti bene? Perché non rispondi? Sei tutto rosso. I’m sorry Sir, I think Luigi isn’t feeling well. -
D’un tratto attirò l’attenzione di tutti gli studenti. Con gli occhi già aperti ritornò in sé e vide le teste dei presenti chine su di lui come quando da bambino le signore si chinavano sulla culla per ammirare la bellezza di quel bimbo dalla pelle ambrata.
- Sto bene...sto bene...ho bisogno di un po’ d’aria!
Si alzò e si incamminò barcollando verso l’uscita. Una volta in corridoio, appoggiando le spalle alla parete, lentamente lasciò andare indietro la testa e tra sé e sé disse:- Ma chi è? Cosa mi ha fatto? Mi ha stregato!!! -
- Luigi, cos’hai? Ti senti meglio? -
- Si, grazie Maria. Non so cosa mi sia successo, forse c’era troppo caldo in quell’aula. -
- Ciao...stai meglio ora? - Disse Irene apparendogli dinnanzi con sguardo divertito ma preoccupato.
- Ssss...si...grazie eh...si grazie!-
- Vabbè...io rientro Luigi...mi sembra tu stia molto meglio ora! - Irruppe Maria guardando gli occhi luccicanti dell’amico e riconoscendovi i sintomi dell’amore a prima vista.
- Luigi...questo è il tuo nome...che carino, ti si addice proprio, timido come sei! Ah, il mio nome è Irene!
Trovata l’aspirina ne prese una compressa effervescente, lentamente la fece cadere nel bicchiere vuoto, si diresse verso la fontana, girò la manopola, rimase qualche secondo ad ascoltare lo scorrere dell’acqua, riempì il bicchiere ed aspettando che la compressa si sciogliesse cominciò a guardare Irene. Era bella, bellissima in quel vestito che le avvolgeva il corpo mettendone in evidenza le forme perfette e sinuose. Si stava preparando per andare a prendere il loro figlioletto all’asilo. Sentì quello stesso calore che avvertì la prima volta che la vide ed ebbe voglia di trasformarsi in quel vestitino per avvolgerla totalmente. Barcollando si diresse verso di lei, la abbracciò da dietro, lei si girò lentamente, ricambiò l’abbraccio guardandolo negli occhi. Lui si immerse nella profondità di quello sguardo così femminile, lei sentì il cuore sciogliersi nel trovarsi invasa da quegli occhi dolci e innamorati. Gli sorrise teneramente, lo baciò sulle labbra, gli accarezzò i capelli e gli intimò di prendere l’aspirina e curarsi perché di lì a poco lo avrebbe voluto tutto per sé. Luigi, come al solito rimase imbambolato e sognante. Bevve l’aspirina, si distese sul divano e si addormentò.
- Luigi...Luigi...che fai dormi? - Disse Irene.
- Irene...quanto sei bella! - Disse lui aprendo gli occhi e trovandosi a due centimetri dal viso della moglie che gli stava dando un bacetto sul naso.
- Alzati dai, sono già qui, hanno appena citofonato. -
- Ma di chi parli Irene? -
- Ma come, allora è proprio vero che ad una certa età si dà di matto! Gianni, tuo figlio, con la moglie ed il piccolo... -
- Ah...dimenticavo, è vero, li aspettavamo. Mi sono addormentato ed ho sognato...-
- Sognare, sognare, sognare...non fai altro che sognare caro il mio scrittore! Sogni da quando ti conosco...la bellezza di trentacinque anni...ci vogliamo svegliare una buona volta? -
- Ma amore, sognavo di te! -

- E sono trentacinque anni che con le tue risposte ingenue mi fai sciogliere il cuore...ma sì...continua a sognare ... ed insegna a farlo anche a me, prima che sia troppo tardi! - Disse Irene abbracciandolo, dandogli un bacio sulla bocca e due schiaffetti affettuosi sulla guancia destra.

mercoledì 25 dicembre 2013

Natale 2013...prima volta!


La mia prima volta a Modena?
Natale 2013!
Per la prima volta ho trascorso il Natale a Modena, mia città di adozione, con mia moglie, la sua famiglia e la mia.
Dopo due giorni di preparativi, pasti super abbondanti e chiacchierate interessanti, eccomi a scrivere, alle ore 1.24 del 26 dicembre, ascoltando musica jazz.
Questa volta il prescelto è Chet Baker, a me sconosciuto fino a quando il mio sguardo non è caduto su uno dei suoi album in un negozio. Ed ecco che la musicalità del suo nome mi si è impressa nella mente stuzzicando la mia curiosità.
Per la prima volta ascolto "I waited for you" di Chet Baker e mi persuado che vivere è un susseguirsi di prime volte...